Lettera a D. ~ Storia di un Amore ~
Di che cosa è fatto un matrimonio? Di dettagli.
Un gesto, un sorriso, un saluto. Un modo particolare di muovere la testa, le mani. Una frase ripetuta. Un’abitudine condivisa. Frammenti di ricordi. La camminata. I silenzi. Le parole abbandonate quasi per caso all’ascolto distratto dell’altro/a. Indulgenza. Insofferenza, anche. I nomignoli. Come ci si addormenta insieme, ogni notte, e come ci si risveglia, ogni mattina. Le telefonate. I libri letti e commentati. La musica condivisa. I segreti. I pettegolezzi. Le piccole premure. I tic, le manie. Gli oggetti dell’uno, dell’altra, che nel corso degli anni si mescolano. Quello che si dà e quello che si trattiene per sé, per pudore, per timidezza, per rispetto, perchè talvolta si ha quasi timore che l’altro/altra troppo ti conosca, troppo ti somigli. Gli spazi che ora si sovrappongono, ora si allontanano. E alla fine, in un certo modo, non ci sono più un “io” e un “tu”, ma quello che sei, che fai – anche quando l’altro/l’altra è altrove, anche quando materialmente non sa che cosa ti accade, o che cosa stai combinando – non può comunque prescindere dalla sua presenza nella tua vita: sei quello che sei perché l’altro/l’altra è comunque con te, in te, perché c’è un “noi” che si è radicato profondamente nella tua identità, nel modo di guardare e affrontare la vita, e tu non sai più distinguere, guardando al passato, il tempo in cui non eravate insieme.
Ho letto questo libretto di André Gorz, Lettera a D. – Storia di un amore, diversi mesi fa.
Si finisce in un’ora, o poco più.
Subito mi colpirono le straordinarie, bellissime, parole finali, che riprendono, a chiusura di un’ideale parentesi, l’inizio.
Hai appena compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquattotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorato di te un’altra volta e porto in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie. La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione. Non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri. Sento la voce di Kathleen Ferrier che canta: “Die Welt ist leer, Ich will nicht leben mehr” e mi sveglio. Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora. Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme.
Fra l’inizio e la fine, la storia di una vita intera trascorsa insieme, che è anche la storia di una lunga avventura intellettuale: André Gorz, uno dei profeti del Maggio francese, un precursore del moderno pensiero ecologista, un uomo noto, apprezzato, uno scrittore, un filosofo, un giornalista ben conosciuto (ha diretto Les Temps Modernes, la rivista di Sartre, e fondato con Jean Daniel, il Nouvel Observateur), tenta in questo modo di pagare il suo debito nei confronti di Dorine, la moglie, di riconoscerle apertamente il merito di averlo sostenuto, incoraggiato, spinto lungo la strada non sempre facile dell’affermazione pubblica. Ma è un debito che non si può pagare così. Perché è qualcosa di diverso dal dire che “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” (e bene fa Adriano Sofri a ricordarlo nella sua acuta introduzione): è piuttosto il riconoscimento, disarmante nella sua radicalità, che, senza la presenza intelligente e discreta della propria compagna, niente sarebbe stato com’è stato. I pensieri non sarebbero stati pensati nel medesimo modo, la teoria sarebbe stata altra, o forse non sarebbe stata, la via sarebbe stata un’altra via: André Gorz, in definitiva, non sarebbe stato André Gorz. E la prospettiva di perdere Dorine equivale, né più né meno, alla prospettiva di perdere se stesso. Insopportabile.
André Gorz il suo debito l’ha pagato altrimenti. Poco più di un anno dopo la pubblicazione di questa testimonianza, i corpi del filosofo e di sua moglie Dorine, da tempo affetta da una malattia degenerativa, sono stati ritrovati uno accanto all’altro, nella loro casa di Vosnon: si erano uccisi con un’iniezione letale, lasciando minuziose istruzioni per quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Il suicidio, ovviamente, ha gettato una luce diversa sul libro, che pure aveva già avuto successo in Francia, quasi che quest’ultimo gesto fosse la conclusione autentica, collocata oltre le pagine stampate, di una sorta di romanzo autobiografico sul quale già molti si erano commossi. Ma quest’esile opera non è un romanzo. Si tratta dell’estremo tentativo di rivelare, senza tradirlo, l’intreccio inestricabile fra la parte pubblica e quella privata, nascosta e sfuggente, di rimettere a posto i pezzi del puzzle della propria identità, di restituire alla scrittura la trasparenza della vita, di cancellare lo iato, sempre presente, fra quello che si vorrebbe dire e quello che in realtà si dice o si ammette. Ma la scrittura, anche quando si esprima al meglio, rivela solo in parte, in modo intermittente, impreciso, accennato. E’ una sfida destinata in ogni caso a fallire, agli occhi soprattutto dell’autore, prima che del lettore.
Perché, per uno strano paradosso, comunque il lettore riesce a colmare le lacune. Nello specchio della letteratura non c’è più il volto di chi ha scritto, ma quello, sempre diverso, del lettore di turno. La disonestà implicita in ogni discorso letterario può trasformarsi in un altro genere di verità, la verità degli sconosciuti come me, come voi, come chiunque altro si ritrovi fra le mani questa appassionata, struggente, impossibile lettera d’amore.
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